Allevamenti industriali
Gli allevamenti intensivi si caratterizzano innanzitutto per un’impostazione industriale. Specchio di un frenetico consumismo derivato da un’epoca capitalista che ha l’obiettivo di massimizzare le quantità prodotte. Riducendo così al minimo i costi e gli spazi necessari, incrementando a dismisura il guadagno scaturito.
Dagli anni Cinquanta, lo schema industriale si è diffuso, con lo scopo di fornire prodotti di origine animale a prezzi sempre più accessibili, anche per le fasce meno abbienti della popolazione che ha portato a un cambiamento della dieta mondiale.
I sostenitori di questa forma di allevamento asseriscono che un ambiente circoscritto garantisce la protezione degli animali, per esempio dall’esposizione alle intemperie e ai predatori. Assicura una adeguata disponibilità di alimenti e acqua in termini quantitativi e qualitativi, nonché un maggiore controllo dell’animale stesso. Questo si traduce nella maggior possibilità di cura dalle eventuali malattie e soprattutto nell’applicazione di un regime alimentare di alto valore nutritivo, riducendo fortemente gli sprechi e quindi l’impatto ambientale.
Ciò non è del tutto veritiero: una volta le tecniche tradizionali di allevamento si integravano perfettamente con l’agricoltura. Gli scarti animali venivano usati come concime e gli stessi animali contribuivano al lavoro nei campi prestando forza lavoro. Oggi negli impianti agricoli odierni, la maggior parte delle volte, ciò non accade.
Mondo, Europa e Italia: I dati della FAO
Secondo i dati estimativi della FAO (Food Agriculture Organization) si riscontra che il 26% delle terre emerse è destinato agli allevamenti, ai campi per produrre mangimi e agli impianti di trasformazione e confezionamento.
In Europa, infatti, il 71% dei terreni agricoli è utilizzato per il bestiame. In particolare il 63% delle terre arabili è coltivato per produrre il mangime destinato agli animali e il resto è dedicato al pascolo e aree per gli stabilimenti.
Considerando, il solo suolo italiano, si evidenziano circa 150.000 allevamenti con più di 6 milioni di animali al loro interno. Il 60 % di questi è concentrato in pianura padana e vede la Lombardia al primo posto. L’Emilia-Romagna conta 9.350 allevamenti in cui vengono stipati 560.000 individui. In Italia riscontriamo minori allevamenti intensivi, rispetto alle altre nazioni dell’UE, grazie anche alla nostra tradizione di allevatori “di montagna” con l’utilizzo di tecniche di allevamento più rustiche e antiche, soprattutto nella zona settentrionale del nostro paese.
L’ente ha anche stimato che il 18% delle emissioni è costituito dai gas derivanti dagli allevamenti intensivi, superando persino il settore dei trasporti (13,5%).
Per quanto riguarda il Futuro?
In conclusione, questa è la domanda più importante da porsi: si possono mantenere i regimi di consumo attuali? La risposta è: no. Si potrebbe aggiungere un “purtroppo” un po’ ipocrita, ma inevitabilmente gli allevamenti intensivi sono necessari per assicurare alte quantità prodotte a prezzi bassi.
Anche se nei Paesi sviluppati, per motivi etici e salutistici, si sta verificando un lieve calo dei consumi, statistica che interessa anche l’Italia. Mentre, nelle aree del mondo in via di sviluppo, che rappresentano la maggior parte della popolazione, la tendenza è opposta. Il costante aumento della popolazione mondiale, che avviene soprattutto in questi Paesi, influisce in modo determinante sulla crescente domanda di prodotti animali.
Pertanto, è evidente che alle condizioni attuali sarebbe impossibile rinunciare al modello industriale di allevamento. L’unica strada per spingere un vero ripensamento dei metodi d’allevamento su larga scala non può che essere la riconversione delle abitudini dei consumatori, per un uso più contenuto e possibilmente più qualitativo dei cibi di origine animale.
Nel frattempo, resta doveroso l’impegno per garantire condizioni di vita il più possibile accettabili agli animali che vivono negli allevamenti intensivi.
Scrittore: Michele Cassandrelli